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I Nostri Servizi
Diritto del Lavoro- Rassegna Giurisprudenza
La Suprema Corte di Cassazione ha esaminato il caso di una commessa, licenziata per aver usato un linguaggio troppo sboccato mentre si trovava in pausa pranzo insieme ad altre colleghe di lavoro.
La donna era stata richiamata del direttore più volte ma ciononostante ha continuato ad utilizzare un linguaggio ricco di parolacce e, pertanto, veniva licenziata per giusta causa.
La Cassazione ha dunque confermato il licenziamento come conseguenza del comportamento tenuto dalla dipendente e, ritenendo il ricorso inammissibile, ha condannato la donna al pagamento delle spese processuali.
Con la sentenza in commento, la Cassazione ha affermato che “gli arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità sono costanti nell’affermare che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti ai sensi dell’art. 2 della legge 1204/71; per la qual cosa il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno (tra le molte, Cass., nn. 18357/04; 24349/10)“.
Sulla base di quanto appena detto, continuano gli ermellini affermando che il giudice di merito “ha erroneamente applicato l’art. 8 della l. n. 604/66, poiché la disciplina legislativa di cui al D.lg.vo n. 151/01 non effettua alcun richiamo alle leggi n. 604/66 e 300/70; la nullità del licenziamento è comminata quindi ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 151/01 e la detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo, prevedendo una autonoma fattispecie idonea a legittimare, anche in caso di puerperio, la sanzione espulsiva, quella, cioè, della colpa grave della lavoratrice“.
Con la sentenza indicata, gli ermellini hanno spiegato che «ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs 30.3.2001 n.165, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla legge 28.6.2012 n.92 all’art.18 della legge 20.5.1970 n.300, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata legge n.92 del 2012 resta quella prevista dall’art.18 della legge n.300 del 1970 nel testo antecedente alla riforma»
Alla Corte viene chiesto di stabilire se il licenziamento intimato prima dello scadere del periodo di comporto, per il perdurare delle assenze per malattia del lavoratore, sia un licenziamento inefficace fino allo scadere del comporto o sia invece nullo ab origine per violazione dell’art. 2110 comma 2 c.c.. I giudici innanzi tutto chiariscono, con un importante percorso argomentativo, la natura peculiare del licenziamento per superamento del periodo di comporto, che costituisce fattispecie autonoma rispetto a quello per giusta causa o per giustificato motivo, e da questa sua peculiarità derivano differenti obblighi sia per il lavoratore che per il datore di lavoro. Sulla base di ciò gli Ermellini cassano con rinvio la sentenza del giudice territoriale enunciando il seguente principio di diritto cui i giudici del rinvio dovranno uniformarsi: “Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 comma 2 cod.civ.”